Un editto del Duca di Roccaromana, plenipotenziario in Toscana di Gioacchino Murat, ordinò ai fiorentini in nome del suo re, che nelle sere del 29 e 30 aprile 1814, in segno di spontaneo giubbilo "per il fausto avvenimento" del ritorno della Toscana a Ferdinando III, si facesse una solenne illuminazione, "giacché era piaciuto alla Divina Provvidenza di esaudire i preghi degli afflitti toscani".
E la mattina di quei due giorni, furono affissi per la città vari altri editti, che concernevano tutti il definitivo cambiamento di governo.
"Per contrassegno di gratitudine al popolo fiorentino lo stesso re di Napoli ordinò che alle tre pomeridiane del 29 aprile fossero estratte alle Cascine in una bene intesa ed elevata tribuna, cento doti di cento lire l'una ad altrettante povere zittelle della città ".
Per quanto delle elevate tribune tutte ne avessero vedute, nessuno però era avvezzo a vederne una "ben intesa" e perciò parve forse una cosa anche più straordinaria; ed il popolo esultò a queste prove d'affetto così tenero, dategli per l'appunto quando Murat se ne andava.
Non per questo però sarebbe tornato addietro; perché ognuno contava le ore per affrettare il ritorno di Ferdinando. Ma non basta. Alle cinque e mezzo del giorno medesimo, e sempre per ordine di Murat, alle Cascine fu fatta "una corsa alla lunga con fantino, col premio di trenta zecchini al primo cavallo e di venti al secondo". Premi simili oggi farebbero ridere; ma bisogna pensare che non era stato ancora inventato il miglioramento delle razze equine. Allora i cavalli eran come nascevano; e nessuna società benemerita si dava pena di fare pateracchi fra i più baldi destrieri e le più avvenenti giumente.
La sera poi, come fu imposto, vi fu illuminazione spontanea di tutta la città , e vennero aperti "con passo gratis al popolo", i due teatri della Pergola e del Cocomero.
Non c'è da dire, se ai fiorentini pareva d'esser tornati a nuova vita. Sembrava loro perfino impossibile tutto quel godi che pioveva loro quasi dal cielo: ma più impossibile che mai, era il credere che la cuccagna dovesse durare a lungo.
La mattina successiva, a rendere anche più gongolanti i fedelissimi sudditi di S. A. I. e R., giunse desiata la voce del Sovrano, il quale parlava per bocca del suo ministro plenipotenziario, il principe don Giuseppe Rospigliosi, cavaliere del Toson d'oro, cavalier Gran Croce di San Giuseppe e gran Ciamberlano, che alla sua volta scelse per portavoce un proclama, scritto con impeto d'entusiasmo indicibile. Il Rospigliosi si lasciò andare perfino ad una frase invereconda, dicendo che la Toscana tornava all'Austria, alla quale di pieno diritto apparteneva!... Non s'era mai sentito di peggio! Altri proclami furono affissi in tutta la giornata, ed emanati dal Prefetto del dipartimento dell'Arno, e dal maire di Firenze, Bartolommei, coi quali si annunziava che il giorno dopo, 1° di maggio, il principe Rospigliosi avrebbe preso possesso della Toscana in nome di Ferdinando III. In tale circostanza si esortava il popolo "a mantenere quel pacifico contegno sempre dimostrato in qualunque già stato cambiamento di governo".
Una simile raccomandazione però, tradiva la paura che qualcuno non vi si assoggettasse volentieri. È ben vero d'altronde, che non c'era da dubitar di nulla, perché i fiorentini avevan preso tanta pratica in quindici anni ai cambiamenti di governo, che in fatto di contegno potevan insegnare agli altri. Ormai sapevano che queste cerimonie si solennizzavano tutte nella stessa maniera. Illuminazione, Te Deum, scampanìo di tutte le chiese, cannonate dalle due fortezze, e giuramento di fedeltà , fino a nuova occasione.
Da un importante diario inedito, si rileva che la sera del 30 aprile "fu ripetuta l'illuminazione, e che tutto il popolo nella sua esultanza, diede a conoscere la sua obbedienza agli ordini sovrani, non accadendo il più piccolo sconcerto". C'era da figurarselo!
Il 1° maggio alla levata del sole, il suono delle campane e lo strepito delle artiglierie "dettero il cenno del felice cambiamento del governo, nel tempo stesso che s'inalzava lo stemma del real sovrano sulla porta di Palazzo Vecchio, detto fino allora della Comune".
Non ostante che l'ora fosse poco propizia alle espansioni di giubbilo, pure, il buon popolo fiorentino salutò con grande applauso lo stemma "del Real Sovrano tutto spolverato (lo stemma) e rimesso a nuovo".
Alle nove una parte della truppa napoletana si schierò in Piazza della Signoria nel "salone grande" di Palazzo Vecchio, ed alle dieci, tutto il resto dei soldati napoletani partirono, con lo stato maggiore, per Napoli, prendendo dalla Porta Romana.
A mezzogiorno ebbe luogo nel Salone dei Cinquecento la funzione dell'investimento di Ferdinando III.
Il salone era stato addobbato e preparato per ordine del marchese Girolamo Bartolommei, maire di Firenze sotto la direzione dell'ingegnere Giuseppe Del Rosso, col consenso in privato del "Segretario d'etichetta" Giuseppe Corsi, stato pregato dal maire. Soltanto "tre uomini dei teatri" furon posti agli ingressi, "per assistere al passo delle persone e del popolo". La cerimonia ebbe luogo senza veruna etichetta. E le persone che vi intervennero, tanto le dame che i nobili e i cittadini, e le cittadine, andavano a prendere il posto loro assegnato.
Rappresentava il Sovrano il principe Giuseppe Rospigliosi, il quale prese posto alla tavola situata sul ripiano del salone, fra il Duca di Roccaromana che faceva le veci di Murat, e il generale Staremberg, comandante generale delle truppe austriache in Toscana.
Appena i tre cospicui personaggi furono riuniti, dalle fortezze di Belvedere e da Basso cominciarono a sparare le artiglierie, per annunziare al popolo che andava compiendosi finalmente il cambiamento del governo, di cui da tre giorni sentiva parlare; e non aveva tant'occhi da leggerlo nei numerosi manifesti, editti e proclami che da quarantott'ore si affiggevano per la città . Alle cannonate si aggiunse, al solito, lo scampanìo di tutte le chiese. Gli evviva del popolo, sempre più buono, facevano eco alle cannonate e alle campane "e vedevasi espresso in ogni volto il contento dei fedeli sudditi".
Tanto per parte del Duca di Roccaromana, cedente a nome del Re di Napoli, quanto per quella del principe Rospigliosi, accettante per il granduca Ferdinando III, vennero pronunziati dei "discorsi di circostanza": e dopo letto l'atto d'investimento, il Duca di Roccaromana con altro "brevissimo discorso" annunziò al popolo il mutamento del Governo, "ed il prossimo sperato felice ritorno di Ferdinando III nei suoi Stati".
"È più facile comprendere che esprimere" dice il prezioso diario citato, non sospetto certamente di eccessiva italianità "l'esultanza del popolo, ed i replicati Viva fatti risuonare in tale felice momento; ed era commovente il vedere la maggior parte degli affezionati sudditi, spargere lacrime di giubbilo e singhiozzare per vera tenerezza". Dev'essere stata una bella musica!
Sciolta l'adunanza "i tre illustri soggetti" si separarono, e tornarono a casa in carrozza a pariglia in mezzo ai rinnovati applausi.
La sera vennero incendiati diversi fuochi sulla torre di Palazzo Vecchio, e si aprirono i teatri al pubblico, che al solito si ebbe " il passo gratis" e non vi fu un posto vuoto!
Ma la cosa più imponente fu l'illuminazione della città , fatta, benché fosse la terza sera, con una grandiosità "non mai usata". Il Ghetto "della Nazione ebrea" si distinse sopra a tutti; e un immenso popolo "iva girando per le contrade, echeggiando l'aere con gli evviva Ferdinando e i principi coalizzati".
Il passeggio del popolo durò quasi tutta la notte; e così terminò "un sì fausto giorno, tanto desiderato, e che avrà epoca nei fasti della Toscana".
Il seguente dì 2 maggio fu cantato, tanto per mutare, un altro Te Deum, con relativo sparo d'artiglierie dalle due fortezze.
La sera il principe Rospigliosi diede pranzo a tutte le autorità , le quali avevan voltato bandiera daccapo, nella sua abitazione, alla Locanda della Nuova Yorck, allora in Via de'Cerretani, tra Via della Forca e Via de'Conti.
Nel Salone dei Cinquecento il giorno alle quattro erano state estratte cento doti di dieci scudi l'una a cento povere zittelle, che se prendevano marito con quella dote sola, potevan dire di diventare cento povere mogli.
Fra tutte le feste fatte per insediamenti di nuovi principi, o di restituzione dello scettro ai vecchi, il Te Deum era quello più in voga. Tanto è vero, che la mattina alle dieci del dì 6 di maggio, ne fu cantato un altro in Duomo, per solennizzare il giorno natalizio di Ferdinando III; ed al cominciare di esso, furono tirate le solite cannonate dalle fortezze.
Dopo il Te Deum, per solennizzare sempre più quel faustissimo giorno, il principe Rospigliosi, nel Palazzo della Crocetta in Via della Colonna, fece prestare da tutte le autorità il giuramento di fedeltà all'antico sovrano.
Tutti eran contenti e non c'era da dubitar di nulla; ma a scanso di casi, e con la parvenza di render più solenne la cerimonia, nel palazzo della Crocetta furori mandate diverse truppe, le quali si schierarono per fare "spalliera" lungo le scale, sui ripiani, alle porte principali ed a tutte le stanze, per quanto fosse stato stabilito che non doveva esservi nessuna etichetta.... se non quella forse di un po' di paura.
La direzione della funzione venne affidata al prenominato Segretario d'etichetta Corsi, combinata avanti col consigliere Leonardo Frullani, il quale alla sua volta aveva ricevuto gli ordini per l'esecuzione di essa, dal Segretario di Stato, duca Emilio Strozzi.
I biglietti d'invito alle autorità chiamate a prestare il nuovo giuramento, furon consegnati personalmente dal primo furiere Ranfagni e la Sala del trono preparata dai tappezzieri addetti alla real guardaroba generale, con l'assistenza del "Banchelli" guardaroba del palazzo della Crocetta.
La funzione cominciò alle undici e mezzo, e terminò al tocco.
Sotto il sontuoso baldacchino eretto nella Sala del trono, in mancanza del Sovrano fu posto il ritratto di lui, e fece lo stesso.
Il principe Rospigliosi rappresentante Ferdinando III, si assise alla destra di questo, facendogli corte i ciambellani granducali, o ciamberlani come dicevano allora, ed altre persone nobili invitate per mezzo del Segretario d'etichetta e del furiere di corte, con biglietto della Reale Segreteria di Stato.
Il furiere di turno, nell'anticamera, chiamava a mano a mano tutti coloro che erano stati invitati, e che introdotti nella Sala del trono "salutavano con profonda riverenza il ritratto del Real Sovrano, come se fosse stato lui, e quindi il suo rappresentante". Dipoi si dirigevano al tavolino sul quale era steso un ricco tappeto dove erano "aperti i sacri Evangeli".
Era seduto a quel tavolino monsignor vicario Gaetano Niccolini, assistito da un cerimoniere della Metropolitana, che stava in piedi da una parte.
I personaggi, ciascuno alla loro volta mettendo la destra sul Vangelo, pronunziavano la seguente formula: "lo giuro
fedeltà ed obbedienza a Sua Altezza Imperiale e Reale il granduca Ferdinando III".
Fu un miracolo se nessuno sbagliò imbrogliandosi coi tanti giuramenti prestati innanzi, e dicessero, invece di Ferdinando III, di giurar fedeltà al Direttorio di Francia, o a Lodovico di Borbone, o a Maria Luisa regina reggente, o a Napoleone, o alla signora Baciocchi, o a Murat che tanti erano stati in quindici anni i padroni, passati dinanzi agli occhi dei fiorentini.
Il 21 di maggio, "senza nessuna etichetta né corte", ma con la massima semplicità , fu dato il giuramento al Prefetto di Siena, Bianchi; al Sottoprefetto di Pistoia, Cercignani; a quello di Volterra, Guidi; al Commissario d'Arezzo, a quello di Grosseto, Bonci; ai componenti l'amministrazione del debito pubblico, al Nomi, segretario generale del Prefetto; al Fabbrini, aiutante del Maresciallo di Palazzo; al Pistolesi, direttore della Dogana di Livorno; al Cappelli, direttore di quella di Pistoia; e al professore Benvenuti, direttore dell'Accademia delle Belle Arti.
Dopo il giuramento, i Prefetti, i Sottoprefetti e i Commissari, furono investiti di suprema autorità , per ricevere essi un tal giuramento nelle loro rispettive sedi dai maires ed altri impiegati, dipendenti dalla loro giurisdizione.
Ai maires del circondario di Firenze fu dato il giuramento dal Prefetto del dipartimento dell'Arno Giuseppe Stiozzi Ridolfi.
La prima festa solenne, dopo la restaurazione di Ferdinando III, fu quella del Corpus Domini il 9 giugno 1814; ed il principe Rospigliosi "tenne varie sedute col maire Bartolommei", con Monsignor Vicario, e col Comando Militare della Piazza come se si trattasse d'un piano di guerra, per concretare di comune accordo gli inviti da farsi, e l'ordinamento della processione, che fu eseguita col seguente ordine.
Apriva la marcia un caporale con quattro fucilieri del reggimento reale Ferdinando; e quindi venivano le Compagnie e Confraternite, secondo il loro ordine; dopo di esse i vari cleri per grado di precedenza. Seguiva quello della Metropolitana, i canonici della medesima, i ciambellani invitati, lo Stato maggiore militare e i sacerdoti parati, col baldacchino, al quale facevano ala i granatieri del reggimento reale Ferdinando. Dietro ad esso, il principe Rospigliosi con alla destra il Prefetto; ed alla sinistra, invece del maire Bartolommei che non si fece vedere, prese il suo posto il Presidente della Corte d'Appello.
Intervennero pure il Presidente del Tribunale di prima istanza, i componenti la Corte d'Appello nella loro precedenza, i consiglieri di Prefettura, i componenti il Tribunale di prima istanza, gli aggiunti del maire, i giudici di pace, i commissari di polizia, e gli uffiziali militari fuori di servizio.
Chiudeva la marcia un distaccamento militare, ed un corpo di Ulani tedeschi a cavallo.
Tutto "il militare" che era stato schierato sulla gran Piazza del Duomo dalla parte così detta del Bottegone, subito dopo passato in processione il clero di San Lorenzo, si pose in marcia, avendo alla testa i comandanti e tutta la banda militare con "i rispettivi istrumenti a fiato e cassa".
I cavalieri di Santo Stefano non in cappa magna né uniforme, perché soppressi al tempo dei francesi, ma in abito appunto alla francese, in memoria di chi li aveva soppressi, portaron l'asta del baldacchino, come in passato; e ciò per invito fatto loro dal principe Rospigliosi; e furon diretti ed assistiti dai cerimonieri e Taù della religione, per le mute da farsi durante il corso della processione, alla quale prese parte "un copioso numero di nobiltà con torcia".
"Il militare" per tutto il tempo del corso medesimo formava una doppia ala, cominciando dal clero di San Lorenzo fino a tutto il restante del convoio, chiudendo infine un distaccamento di Ulani tedeschi a cavallo. Arrivato "tutto il treno suddetto" sulla piazza di Santa Maria Novella, venne data con le consuete forme la benedizione e quindi sciolto il convoio. avendo assistito a tutto ciò personalmente il principe Rospigliosi e tutti i corpi rappresentanti il governo provvisorio.
Tutte le cariche presero posto in chiesa nei luoghi loro assegnati. A destra dell'altar maggiore c'era l'inginocchiatoio e tappeto in terra preparato per il Sovrano, ch'era in Germania; e di faccia, al lato del Vangelo, quello del Rospigliosi. I granatieri facevano spalliera, dalla porta d'ingresso fino alle panche dell'uffizialità e della nobiltà con torcia.
Tutt'insieme fu una festa che al popolo andò molto a genio, tanto più che da diversi anni non vi aveva assistito.
Dopo la benedizione il principe Rospigliosi uscì di chiesa "senza veruna etichetta" montò in carrozza e tornò alla sua abitazione, alla locanda di Nuova Yorck, allora in via de'Cerretani, passato il Canto alla Paglia.
Bibliografia: FIRENZE VECCHIA - STORIA - CRONACA ANEDDOTICA – COSTUMI (1799-1859) di Giuseppe Conti